Per qualche strano meccanismo psicologico che non intendo approfondire, continuo a dare un’occhiata al sito di “Repubblica” con inquietante regolarità, diciamo quasi tutti i giorni. E lo so benissimo che spreco il mio tempo in maniera indecente: a parte qualche anziano trombone che scrive di argomenti che conosce e di cui si nutre, tipo le congiure politiche del sottobosco romano, Repubblica ospita senza vergogna la produzione di soi-disant giornalisti tuttologi intenti a veicolare verso il prossimo qualsiasi belinata appaia in Rete, senza quel minimo di professionalità che imporrebbe quanto meno di capire quello che si copia.
In estate poi, quando i professionisti del copiaeincolla vanno in ferie a svaccarsi la quattordicesima alla quale tutti noi contribuiamo regalando soldi per i contributi statali alla stampa, in redazione restano gli sfigati – per lo più stagisti sfruttati senza vergogna e/o collaboratori ansiosi di fare curriculum.
E più o meno tutte le estati che Dio manda in terra, puntuale come una gaffe di Berlusconi (©Piero Ricca), ecco l’articolo sulle esplosioni solari che stanno per scatenare apocalittiche interruzioni delle comunicazioni. E’ un classico.
Non posso riprodurre la puntata 2011, a cura della fantasiosa e creativa Elena Dusi, perché protetta da un minaccioso copyright: non vorrei che Ezio Mauro, uno che si prende così sul serio da non togliere la cravatta manco sotto la doccia, scatenasse i suoi avvocati. Mi limito a segnalare la godibilità dell’articolo, secondo il quale “rischiano di subire interferenze anche le telecomunicazioni radio e i cellulari, soprattutto nelle aree vicine ai poli” (Panico fra gli eschimesi?).
Per chi gradisse qualche minuto di comicità, il parto letterario e scientifico della signora Dusi è fruibile gratuitamente qui. Alcune gag, come quella delle tempeste solari catalogate secondo la loro “veemenza”, sono classici del genere “traduco alla cazzo perché non capisco un belino”, ma altre sono frutto della fantasia dell’autrice – e di queste mi complimento con lei.
In realtà, sta succedendo che l’attività solare va verso il massimo del ciclo undecennale – roba del resto nota da secoli – e sicuramente la cosa influisce sulle telecomunicazioni, altra roba risaputa e studiata e documentata. Ma non perché si tratti di qualcosa di inaspettato, sia chiaro: nei periodi di picco dell’ attività solare le emittenti broadcasting spostavano i programmi per l’estero su lunghezze d’onda maggiori, le stazioni costiere utlizzavano frequenze più basse per restare in contatto con le navi, insomma si prendevano provvedimenti per garantire il servizio con il minimo di disagi per l’utenza. Routine, o quasi.
In realtà quello che sta dicendoci la NOAA, spacciando un fenomeno naturale e prevedibilissimo come fosse una manifestazione della collera divina, è che tutti questi fantastici sistemi di comunicazione basati sulla tecnologia satellitare non sono stati protetti e possono anche saltare come dei birilli a seconda delle bizze delle eruzioni solari. Ovvero che si è implementato un backbone di comunicazione sul quale ormai passa una quantità smisurata e critica di dati vitali (reti, localizzazione GPS, telefonia, sicurezza in mare e in cielo e millanta altre robe basilari) senza minimamente tenere conto del fatto che il Sole ha le sue maree e le sue tempeste, cosa nota da millenni, e che le comunicazioni ne risentono di brutto, il che si sapeva già dai tempi del telegrafo a filo.
Tanto varrebbe costruire ospedali sul greto del Po e sorprendersi perché se piove molto in autunno un ‘inondazione li spazza via, tanto per dire, oppure portare una coppia di tigri affamate a passeggio nel parco e meravigliarsi se ci scappa una strage di bambini, vero, o anche affidare il governo a un truffatore psicotico per poi stupirsi se il paese va in vacca.
Al momento, comunque, i picchi massimi di attività solare sono sempre passati senza fare troppi danni: semplicemente, è andata bene. Potrebbero sicuramente verificarsi fenomeni di intensità ben maggiore e, per usare un’ apocalittica immagine della sempre immaginifica signora Dusi, “oltre alle mappe cartacee, bisognerebbe ripristinare anche le candele”. Ma in tutti i casi non si venga a dare colpe alla sfiga, al destino cinico e baro, alle cospirazioni, alle scie chimiche, alla speculazione internazionale o ai magistrati comunisti. Ci si incazzi piuttosto, e giustamente, con la pessima e diffusa abitudine di affidare la gestione dei servizi comuni a pesone incompetenti, disoneste e avide di ricchezze. Fanno più danno costoro di quanti non ne facciano dozzine di mega flare (traduco per la signora Dusi: esplosioni solari) messe assieme.
Fette di salame sugli occhi
Ho fatto colazione, stamani, godendomi il fresco di questa strana estate. Fra un sorso di succo di mango, una forchettata di uova strapazzate con il bacon e un’occhiata alla bougainville decorata da una finissima rugiada, scorrevo come sempre la mia copia del Pakistan Observer, l’autorevole quotidiano di Islamabad che talvolta offre interessanti insight sulla poltica e sullo sviluppo sociale di una importante porzione del vasto e complesso subcontinente indiano.
Orbene: pare che la Pakistan Electronic Media Regulatory Authority (PEMRA) abbia emanato una serie di direttive che orientano in maniera molto precisa lo sviluppo del broadcast in Pakistan.
Trovo molto significativa la parte che riguarda il servizio di radiofonia: si parla di un aggressivo piano di modernizzazione che prevede tra l’altro l’ upgrade dell’emittente in onda media di Larkana da 10 a 100 kW, la sostituzione dei vecchi trasmettitori di Hyderabad e di Multan con moderni impianti da 100 kW e l’ ammodernamento delle attrezzature di studio un po’ ovunque. Il tutto supportato da un sistema di Virtual News Room per condividere contenuti in tempo reale fra le redazioni di Lahore, Karachi, Peshawar e Quetta.
Onda media, quindi, a tutta manetta. Chi interpretasse questa mossa come terzomondismo obsoleto sbaglierebbe di brutto. Radio Pakistan è disponibile anche su 15 canali in stream su Web e 4 canali per dispositivi mobili: terzo mondo sarete voi. La scelta evidentemente è quella di puntare su infrastrutture avanzate per arrivare alla diffusione di un segnale di qualità fruibile nel modo più capillare, efficace, pratico ed economico possibile: la radio, ascoltata a casa, in auto, sull’autobus, nei campi, sulle barche, ovunque.
I pakistani sono 107 milioni di persone; Islamabad, per dire, ospita tredici milioni di uomini, donne, anziani e bambini. La cultura islamica e tribale come al solito non facilita la crescita economica, ma nonostante queste palle al piede l’economia cresce del 4% all’ anno. L’ esercito pakistano dispone tra l’altro di alcune simpatiche bombe nucleari, segno che le nostre stereotipate immagini di paese irrimediabilmente arretrato e popolato da straccioni analfabeti risultano quanto meno fuorvianti.
In Europa le onde medie si spengono e governanti di rara incompetenza spendono – e intascano – somme paurose di denaro pubblico per trasmettere programmi fantasma fruibili con ricevitori DAB di scarsissima diffusione o addirittura per inquinare l’etere con trasmissioni DRM che nessuno ascolta semplicemente perché nessuno commercializza ricevitori per un sistema tanto palesemente demenziale. In Pakistan il digitale si utilizza nel posto giusto della filiera, ovvero in sede di produzione e di gestione dei backbone, lasciando all’analogico il ruolo nel quale eccelle, cioè la diffusione dei contenuti da fruire per mezzo di dispositivi economici, di efficienza ottimale, a basso consumo e costruibili eventualmente in loco da aziende anche piccole o medie.
Si tratta di filosofie opposte, una delle quali deve necessariamente essere migliore dell’altra. Vogliamo rilettere sulla cosa, possibilmente tenendo conto dell’ ipotesi che i pakistani, anche per questioni religiose, non abbiano necessariamente le fette di salame sugli occhi?