Il broadcast cade dalla nuvola

 

L’ anno scorso era the next big thing, la breaking application, la soluzione definitiva. La nuvola era ovunque: nei discorsi di dozzine di CEO e sales manager, nelle speranze dei service-provider, nelle indicazioni degli esperti del Nasdaq che ipotizzavano bottini multimilionari per chi avesse investito nella nuova, dilagante tecnologia del post-outsourcing. Costoro, con la certezza assoluta che caratterizza i testimoni di Geova, predicavano le meraviglie di un mondo migliore alleggerito da tutte quelle scomode manifestazioni della materia come cavetti, rack, connettori, alimentatori, hardware, apparati fisici che hanno bisogno di spazio, energia, manutenzione. La buona novella, sostenevano estasiati, è che si può rottamare tutto e trasformare le server-room in centri benessere: d’ora in poi è tutto nella nuvola, dove pochi angioletti felici svolazzano assicurando a tutti il paradiso di strutture sempre efficienti e sempre aggiornate. Vuoi mettere il risparmio.
A distanza di dodici mesi, in una sala conferenze della IBC ho assistito a un dibattito poco pubblicizzato ma decisamente illuminante sul tema “Il punto sulla nuvola e i media”.
Nel prestigioso panel di esperti c’era gente come Harry Strover: si tratta del chief enterprise architect della BBC – uno che nel broadcast ci lavora tutti i giorni, non un CEO qualsiasi. Ebbene: Strover ha messo immediatamente in chiaro che la nuvola può servire solo for the less sexy back office stuff e ha fatto notare come “per trasferire un programma televisivo un po’ lunghetto nella nuvola, oggi come oggi sono necessari un paio di giorni” alla faccia della almost-zero-latency millantata dai missionari.
Dopo Strover, una raffica di dichiarazioni per nulla ambigue. Christophe Remy Nens, direttore IT di Canal + : “per quanto riguarda archiviazione e transcoding, non sono per niente convinto che a trasferire questi servizi al cloud si risparmierebbe un centesimo”. Oliver Copp, international IT governance manager di ProSiebenSat1: “C’è anche da tenere conto del fatto che molti contratti proibiscono esplicitamente il passaggio di contenuti su strutture di terze parti”.
Insomma, una desolazione. Strover – che è un gentleman britannico – per non passare proprio per quello che fa il funerale alla nuvola, in un secondo intervento la mette sulle previsioni futuro e butta lì un “per arrivare a poter fare editing nella nuvola ci vorranno ancora dai cinque agli otto anni”. Dal pubblico, uno di Fox International si dichiara in disaccordo: “ci vorrà meno tempo”. Ma per il momento la nuvola, per quanto riguarda il broadcast, rimane nella poco dignitosa storia dei tanti, troppi annunci di meraviglie e rivoluzioni finite nel nulla o quanto meno rinviate a data da destinarsi.
Esattamente l’anno scorso, in tempi non sospetti, in mezzo agli osanna e alle certezze di una inevitabile, inarrestabile e gloriosa migrazione del workflow broadcast sulla nuvola, avevo espresso l’opinione che si trattasse di una belinata senza se e senza ma. E’ sempre un piacere constatare che, sebbene con imbarazzante ritardo, anche i grandi player del settore siano arrivati alle mie conclusioni; avessero letto MixeR anziché quei tristissimi house-organ che passano per riviste di informazione sul settore, avrebbero probabilmente evitato queste figure da cioccolataio.
Il fatto è che le strutture dei grandi broadcaster, istituzionali o privati che siano, si basano su organigrammi decisi negli ambienti della finanza: le decisioni strategiche vengono prese da gente con poca o nessuna familiarità con il settore e le sue problematiche teniche, personaggi ai quali un discorso che contenga la formula magica “riduzione dei costi e aumento del fatturato” fa perdere il controllo, il buon senso e il pudore. Costoro venderebbero la propria sorella pur di presentare al CDA la grande idea del cloud che riduce i costi e migliora la produttività, proprio come la fusione fredda, la pietra filosofale e l’automobile ad acqua.
Insomma: “meno tasse per tutti” e “tutta la postproduzione sulla nuvola” sono slogan pensati da abili truffatori per raggirare i gonzi, vogliamo dirlo forte e chiaro una volta per tutte? O ci vuole ogni volta l’ Harry Strover di turno, un tecnico, a spiegare che investire in una società che propone soluzioni cloud per la postproduzione broadcast è una pessima idea, per quanto possano consigliare gli analisti di Wall Street che non distinguono uno stream video da uno scoiattolo?


Clouds

IBC Sunday

Sembra estate anche oggi, qui al RAI di Amsterdam. E’ domenica e come al solito sulla spiaggetta artificiale vicino alla birreria si è radunato il solito melting-pot: ragazzi e ragazze del quartiere, famiglie con i bambini e imboscati di ogni nazionalità provenienti da tutti i padiglioni della IBC. Regna un`atmosfera di sano, consapevole svacco.
In un ambiente tanto gradevole si riescono anche ad accettare con metodo non-violento le stranezze  che ogni giorno, puntualmente, generano seri dubbi sull`affidabilità di certi dati inseriti nei discorsi di alcuni CEO, Executive Managing Director o Sales Manager in vena di parole in libertà.
Il CEO di Chyron, per dire, è il signor Michael Wellesley-Wesley. Suppongo appartenga alla nobile famiglia dei  Wellesley-Wesley; si tratta del casato che ha regalato al mondo nientemeno che Arthur Wellesley primo marchese di Wellington, mica gente qualsiasi. Si parla di sangue blu, di immense tenute con castelli, di caccia alla volpe, di fantastiliardi di sterline e di Harvard.
Ora, io non so cosa possa essere successo ultimamente al vecchio Arthur. Sostiene, in un editoriale pubblicato su “theIBCdaily”, che recenti sondaggi stabiliscono che l’ 88% dei telespettatori usano un secondo schermo (tablet, smartphone, laptop) mentre seguono i loro programmi preferiti. C’è chi fa email, chi cazzeggia su Facebook e, sempre secondo questi recenti sondaggi, ben il 38% degli utenti del “secondo schermo” cerca contenuti che si riferiscono al programma che sta andando in onda.  Gli altri 12 telespettatori, quindi una minoranza di sfigati, sono gente che guarda la televisione e basta senza fare multitasking domestico.
Ora: io potrei fare immediatamente nome e cognome di 12 persone che si limitano a fruire del programma TV senza smanettare nessun altro dispositivo, mentre avrei parecchie difficoltà a visualizzare, fra i miei conoscenti, 88 smanettatori compulsivi con lo sguardo vagante fra il primo e il secondo schermo.
Non potrei mai, naturalmente, dubitare della buona fede di un Wellesley-Wesley. Però quelle percentuali non mi convincono per niente, quei dati per me sono gonfiati, sbagliati, farlocchi, oppure è un errore di stampa – ma comunque sono inaffidabili e non valgono nulla.  Costituiscono però un importante indicatore della tendenza a vedere il mondo come si vorrebbe che fosse: con tante dita che scorrono in continuazione sui soffici trackpad dei secondi schermi a cercare contenuti e condividere esperienze che, attraverso un`ottimizzazione della filiera che implica l`acquisto di imprescindibili soluzioni, incrementi il revenue del vendor e del produttore.
In realtà quello del secondo schermo non mi sembra un fenomeno particolarmente impressionante – non tanto, quanto meno, da poter essere considerato una tappa importante nella storia della televisione. E’ solo, dopo tutto, una questione di marketing; le svolte storiche sono ben altre.

The IBC Experience