O’ guappo

Questo signore è il dottor Luigi Gubitosi, nuovo direttore generale della Rai.
Trovo che, come spesso accade, una immagine valga più di mille parole.
Parole su Gubitosi se ne trovano quante se ne vuole e tutte lusinghiere: il ragazzo è laureato in giurisprudenza, ha studiato alla London School of Economics and Political Science e conseguito un master in Business Administration all’INSEAD di Fontainebleau, ha fatto l’amministratore delegato di Wind, è stato nel CDA di  Fiat Auto, Ferrari, CNH, Iveco, Itedi, Comau, Magneti Marelli, eccetera eccetera; è stato anche nel comitato organizzatore delle Olimpiadi degli scacchi di Torino 2006, mica noccioline.
Ora come ora lavora come country manager e responsabile del corporate investment banking della Bank of America per l’Italia e insegna Finanza Aziendale Internazionale presso l’Università LUISS Guido Carli.
Per dedicare una parte del suo tempo alla RAI, il dottor Gubitosi ha chiesto e ottenuto un contratto a tempo indeterminato e uno stipendio annuo di euri 650.000 ovvero una busta paga di € 54.600 e rotti al mese. Questa somma gli verrà corrisposta in ultima analisi dallo stato, cioè dagli italiani ai quali si continua a ripetere tutti i giorni che occorrono sacrifici, che i tagli agli ospedali e agli asili-nido sono inevitabili, che non ci sono soldi per assistere anziani e invalidi, che i giovani devono abituarsi alla precarietà, che si deve lavorare fino a novant’anni e che chi perde il lavoro stia buono e zitto.
Mi sono chiesto fra l’altro quale rispetto del prossimo – e di sé stesso – possa avere uno che si comporta in questo modo senza provare vergogna.
La risposta è tutta in quella immagine, che vale più di mille parole e più di mille master in business administration. Non è uno scatto rubato: il soggetto è in posa, è possibile che la pubblicazione della foto sia stata approvata dal suo ufficio stampa.  Consapevole di essere ritratto, dunque, il dottor Gubitosi ha la massima cura di esibire il suo orologio da polso.  Gli fanno una fotografia e l’uomo da cinquattaquattromila euro al mese si preoccupa di mettere bene in mostra il suo Rolex che diventa il vero protagonista dell’immagine.
Il messaggio che il nuovo direttore vuole comunicarci è semplice: tengo o’ rolexxe alla faccia dei precari Rai per i quali i soldi non ci sono e dei pensionati che non hanno i quattrini per pagare il canone ai quali Equitalia sequestra il televisore.
L’ uomo giusto al posto giusto, nessun dubbio. Farà grandi cose.

IBC – The month after

A volte è utile non cadere nel fascino dell’ immediatezza e lasciare che le impressioni decantino fino a liberarsi dai bells and whistles e assumere contorni meno scintillanti ma più concreti. Perché, diciamolo, la IBC possiamo chiamarla come vogliamo ma basicamente resta sempre e comunque una fiera e come tale è regno di saltimbanchi, giocolieri, prestigiatori e zucchero filato. Quest’ anno, a baracconi smontati e altoparlanti spenti, mi sembra giusto  esprimere grande e incondizionata ammirazione per la categoria degli imbonitori.  Costoro, muniti come sempre di badge e biglietti da visita che li definiscono CEO, AD o direttori di qualcosa, hanno affrontato con grande professionalità ed estremo sprezzo del ridicolo la mission impossible di oscurare la realtà e creare dal nulla il film di un settore proiettato – al limite con qualche sporadico rallentamento – verso un radioso futuro di crescita, commesse e revenues. Chapeau.
Il mantra di quest’anno, ripetuto con tanta frequenza da risultare quasi sospetto, è stato il vecchio detto – credo di origine cinese – secondo il quale ogni crisi è un’ opportunità.  Il che è sicuramente vero e incontestabile; ci sono casi, tuttavia, nei quali l’opportunità potrebbe essere quella di cambiare mestiere o quella di concedersi l’interessante esperienza di pranzare alla mensa della Caritas:  succede ogni giorno, di questi tempi, a parecchie persone in tutto il pianeta. Gli imbonitori lo sanno benissimo ma si attengono al copione del tutto va ben madama la marchesa e fanno il proprio mestiere in modo encomiabile; mai come quest’anno però ho percepito, in certi sguardi e in certi sorrisoni da b-movie, la stanchezza della recitazione. Ammirevoli anche certe arditissime arrampicate sugli specchi finalizzate a spacciare per novità rivoluzionaria qualsiasi  minima variazione nelle caratteristiche del prodotto. In realtà a questa IBC novità tecnologiche ne abbiamo viste ben poche, com’era del resto logico e prevedibile. La nuvola, il cloud,  di conseguenza è stata la protagonista di millanta discorsi, presentazioni, forse anche brindisi. Trovo che il fenomeno sia parecchio preoccupante: quando la ricerca della novità induce a investire risorse ed energie in campagne di marketing finalizzate a pubblicizzare l’esistente come fosse una novità, c’è qualcosa che non gira come dovrebbe.  L ‘ outsourcing è vecchio come il cucco, sono ormai anni che – per dire – affidiamo le nostre attività di comunicazione scritta a strutture esterne come G-mail, usiamo Flickr per fare editing sulle fotografie del compleanno , eccetera.  Era semplicemente inevitabile che, in periodo di vacche anoressiche, spuntassero come i funghi questi servizi esterni che di concettualmente innovativo non hanno proprio nulla. Una campagna di Visual Unity strategicamente affidata all’affissione sulle porte dei cessi della IBC, inoltre, aiutava a non dimenticare l’ovvio: il cloud, in molti casi, altro non è se non un ripiego da scegliere quando non ci sono quattrini perché inevitabilmente introduce anelli deboli in una catena (o la vogliamo chiamare filiera, che fa tanto figo?) che invece dovrebbe essere quanto più possibile sotto controllo ed esente da latenze e/o disfunzioni causate da terze parti in gioco. Nulla di male, questione di scelte;  però chiamatela delocalizzazione senza evocare immagini di nuvolette e angioletti con le alette: chi sceglie di usufruire di un servizio cloud conta di ridurre i costi non tanto alla voce “attrezzature” bensì alla voce “personale”, musse non ce n’è.
E del resto, per come la vedo io, il nostro settore si trova a dover tentare di gestire due situazioni di crisi. Una, quella economica e finanziaria mondiale, generalizzata; la seconda, forse più preoccupante, legata per assurdo alla continua evoluzione tecnologica. Propongo la visione di un brevissimo clip video: si tratta di quaranta secondi girati in un pomeriggio piovoso, quando alla IBC erano in programma le dimostrazioni in esterno delle videocamere state-of- the art.  Passavo di lì dopo una birra, queste immagini sono state riprese con una fotocamera consumer Canon Powershot A1200 HD “entry level”, prezzo inferiore ai 100 euri, appoggiata alla ringhiera per aver modo di fumare una sigaretta in santa pace.


In questa surreale partita di beach-volley succede qualcosa di inatteso: la palla sfugge al controllo dei giocatori e per puro caso passa a pochi centimetri dalla mia fotocamera. In caso di impatto sarebbe stato un disastro, ma non è questo il punto. Il punto è che la mia postazione, scelta per caso, ha prodotto l’inquadratura più emozionante della partita con buona pace delle macchine professionali e degli operatori sicuramente espertissimi appostati dall’altra parte. La reazione spontanea della divertita ragazza bionda (“Quella macchinetta, con tutte ‘ste videocamere…”) è simpaticissima e a modo suo illuminante: quella macchinetta da meno di cento euri, in questo caso, ha prodotto un clip HD editabile (un reply slow-motion del quasi-impatto è una vera figata) e, se si fosse trattato di una partita importante, sicuramente commerciabile perché di qualità compatibile broadcast.

Il fatto è che il gap fra le riprese realizzate con camere consumer e quelle prodotte dalle camere professionali si sta rapidamente restringendo. Un iPhone dotato di accessorio steady costituisce ormai in molti casi l’attrezzatura standard dei giornalisti di Al-Jazeera  che talvolta provvedono anche all’ editing con l’aiuto di semplici “app” proposte da Avid e altri importanti player. In queste condizioni, con le attrezzature di postproduzione totalmente software-based e la standardizzazione che procede inevitabile togliendo spazi ai prodotti basati su standard proprietari, ebbene non occorre essere un genio per capire che il mercato di questi oggetti sta per essere rivoltato come un paio di calzini in tempi brevissimi. Il  dirigente di una “nota casa” giapponese, commentando questo fenomeno, ha ammesso che il problema esiste. Ma, ha aggiunto, i grandi broadcaster cercheranno sempre la massima qualità possibile e tutto sommato anche nel nostro settore you get what you pay for. Il che è incontestabile, ma il mercato non è fatto solo di emittenti pubbliche senza problemi contabili e di multinazionali con budget miliardari; in molti mercati operano broadcaster dotati della creatività e della fantasia necessarie per lavorare bene con mezzi tecnici validi ed economici come quelli che già adesso sono a disposizione di tutti anche attraverso eBay. E’ la convergenza, bellezza, e dubito che bastino gli affannosi e quasi quotidiani annunci dell’ ultimo sistema HD Stereo versione Plus DeLuxe Advanced a generare esigenze di rinnovo delle attrezzature tali da convincere gli operatori del settore, e gli utenti, a cestinare strumenti che funzionano benissimo – non in questo momento storico, almeno.
Questo secondo aspetto dell’evoluzione del broadcast avrebbe comunque la possibilità di evolversi in processo virtuoso, se gestito con intelligenza da gente dotata di visione che opera in un ambiente culturalmente adeguato: si possono ipotizzare piccole emittenti a copertura regionale, tematiche, che producono news locali e fiction,  gestite con modalità da artigianato e non da multinazionale, che puntano sulla qualità della produzione e non sul duopolio tette-culi. Certo, nel nostro desolato e desolante paese può sembrare fantascienza; ma – che piaccia o no – forse la decrescita sostenibile è l’unica alternativa all’ implosione catastrofica che ogni giorno di più vediamo sempre più inquietante all’orizzonte.